Avete presente l’immagine del pianista quale genio un po’ scontroso e compiaciuto di sé che passa i giorni chiuso in casa macinando note, mentre il tempo assume un carattere di fissità immobile? L’antico adagio del ‘musicista nella torre d’avorio’ non si adatta ai nostri tempi esasperati e ridondanti. Oggi i concertisti parlano correntemente molte lingue e portano la loro musica in tutti i continenti del pianeta, costringendo me, un povero scrittore di provincia, a elemosinare briciole d’attenzione tra imbarchi e sbarchi, masterclasses, esibizioni e nuove partenze.
Volevo fortemente questa intervista e, dopo un lungo inseguimento digitale, alla fine ce l’ho fatta. Mariangela Vacatello mi ha concesso un colloquio poco prima di imbarcarsi per Utrecht, dove farà parte della giuria dell’International Franz Liszt Piano Competition, importante concorso che la vide imporsi, all’età di 17 anni, sulla scena internazionale.
Mariangela Vacatello si è laureata nel 2006 con lode e menzione speciale presso il Conservatorio ‘Giuseppe Verdi’ di Milano con i maestri Riccardo Risaliti e Paolo Bordoni. Si è perfezionata con Dominique Merlet a Parigi e ha ottenuto il Council of Honour Award presso la Royal Academy of Music di Londra. Ha collaborato con l’Ircam, Centre Pompidou di Parigi, e con la Fondazione di Arte Contemporanea Spinola-Banna per la quale è stata ‘Artista in Residenza’ insieme al compositore franco-greco Georges Aperghis. Si è esibita in importanti teatri, sale e stagioni concertistiche del mondo: il Teatro alla Scala di Milano, il Carlo Felice di Genova, il Wigmore Hall di Londra, la Carnegie Weill Hall di New York, l’Oriental Centre di Shanghaj. Ha collaborato con l’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, l’Orchestra Rai di Torino, la Filarmonica della Scala, la Prague Chamber Orchestra, suonando con direttori quali Krystof Penderecky, Andris Nelsons, Gabor Takacs-Nagy, Martin Haselboeck, Gustav Kuhn, Alexander Shelley, Xian Zhang, Christopher Franklin, Oleg Caetani, Michael Tabachnik, Andrès Orozco-Estrada, Roland Boer, Aleksander Slatkovky, Gerard Korsten, Daniel Kawka, Bernard Gueller, Zsolt Hamar, Anton Nanut, Donato Renzetti, Alain Lombard, Charles Olivieri-Munroe, Daniel Meyer, Carolyn Kuan, Luigi Piovano. Vive attualmente a Perugia e unisce la sua carriera pianistica con l’attività didattica presso il Conservatorio di Musica ‘Arrigo Boito’ di Parma e l’Accademia di Musica di Pinerolo.
Come quasi tutti i grandi solisti, lei ha iniziato a studiare pianoforte molto presto, a 4 anni. Resta però il dubbio che questa precocità, spesso imposta dai genitori, finisca per oscurare l’aspetto ‘vocazionale’, quella mistica chiamata che appartiene alla mitologia della musica. Le chiedo se, crescendo, c’è stato un momento preciso nel quale ha sentito la voce dell’angelo che andava dritta al cuore e diceva: ‘Ecco, questo è il tuo destino, la cosa che farai con gioia, come se avessi il cuore in fiamme e il diavolo in corpo’.
Credo ci siano diversi modi per identificare la ‘vocazione’ di un musicista, soprattutto al giorno di oggi, dove anche la vocazione è spesso una ‘costruzione’ di immagine. Chi ha la fortuna di poter iniziare presto a far parte della grande vita che è la musica semplicemente non pensa ad altro o almeno, ci pensa (nel mio caso) ma sa che non potrebbe essere, né fare, altro. Dico fortuna perché ancora oggi (posso dirlo ormai da più di vent’anni!) vivo con ardente passione, amore ed eccitazione lo studio dei nuovi repertori: ecco, per me è questo il momento più bello di tutti. Talvolta, molto più che stare su un palcoscenico. Allora mi chiedo: la vocazione è il palcoscenico oppure il backstage della fase di studio, di approfondimento, nella scoperta di sé stessi dietro le opere di altri esseri umani che cerchiamo di comprendere e far comprendere?
In un saggio molto venduto, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, Alessandro Baricco scrive che “nessuna opera d’arte del passato ci si consegna qual era in origine: a noi arriva come un fossile incrostato di sedimenti collezionati nel tempo. Ogni epoca che l’ha custodita per tramandarla vi ha lasciato il proprio segno”. Stando così le cose, a un interprete rimangono due scelte: impegnarsi nella difficile missione di riportare una partitura al suo senso originale oppure aggiungere il proprio tocco a quello dei tanti che hanno provato a tramutarla, facendola diventare sostanza nuova, nuova essenza.
Ho letto questo libro moltissimi anni fa e la teoria di Baricco trova terreno fertile in una parte dei miei pensieri. Se non ricordo male mette in luce, tra le altre cose, il fatto che la troppa elevazione – quasi santificazione – di significati e compositori aumenti il rischio di allontanare dal presente l’arte stessa. A questo proposito ci sono diverse mode che tentano di rendere la musica – che noi chiamiamo colta o classica – più ‘moderna’: io trovo che molti di questi sforzi non rendono giustizia ma spesso penalizzano e banalizzano il valore e l’intensità dei significati dell’opera stessa. Resto dell’idea che la musica, nel momento stesso in cui è riprodotta, fa già parte dei giorni nostri. L’esecutore vive nel presente: alcuni – mi viene in mente Gustav Leonhardt – cercavano di vivere (in parte) la giornata con regole che li riportavano ai tempi del repertorio al quale avevano dedicato l’intera esistenza; altri, come il compositore Helmut Lachenmann che conosce così tanto della musica, incluso pop, rock e leggera dei giorni nostri e quindi sa esattamente come legare passato e presente in successioni di note senza tempo. In una bellissima frase, Kandinsky parla dell’opera d’arte astratta e dello spettatore (non dell’autore o dell’esecutore!), che deve attivarsi per empatia, facendo vibrare dentro di sé l’opera in una risonanza spirituale.
Ci sono spettatori che ascoltano la musica restando in rispettoso silenzio; altri che non riescono a evitare di battere il ritmo con i piedi; altri che hanno occhi solo per l’artista e rimarrebbero fissi a contemplarlo qualunque cosa suonasse, anche il silenzio. Ciò non toglie che ogni popolo, sedendosi in platea ad ascoltare, manifesti atteggiamenti comuni determinati dalle proprie tradizioni, dalle condizioni ambientali, dai vincoli politici e dal significato attribuito alle varie esperienze della Storia. Saprebbe dirmi se c’è differenza, e quale, tra il pubblico di Pechino e quello di Parigi, tra l’ungherese e il sudafricano, il londinese e il nordamericano?
La differenza, come dice lei, dipende dai popoli stessi. Premesso che nelle consolidate stagioni di concerti le persone tendono all’educazione durante l’ascolto (così come se si va al cinema oppure ad una cerimonia), persino in un enorme paese come la Cina dove in pochi anni l’educazione del pubblico è notevolmente cambiata. La musica è un linguaggio che ‘possibilmente’ può essere universale. L’essere umano nasce predisposto al positivo e al bello, in un qualsiasi ambiente e territorio del mondo, anche in culture fondamentalmente diverse: ciò che fa la differenza, anche nel comprendere l’arte di cui si sta parlando, è lo sviluppo e l’educazione ad abbracciare la conoscenza di questi linguaggi. Linguaggi – la musica, l’arte – che, come la natura, ci permettono di sentire la grandezza della vita.
Curiosando su YouTube, ho scoperto un video nel quale suona i Due notturni crudeli di Salvatore Sciarrino. In un’intervista al Corriere della Sera, il compositore siciliano lamentava una scarsa collegialità tra musicisti: “Mancano gli incontri, le verifiche. Troppi pensano che la loro vita artistica dipenda dalla morte di altri. Per me invece l’isolamento è un limite, la pluralità ricchezza”. Queste parole mi fanno pensare al cinema e alla letteratura dove invece esiste il problema opposto: molti artisti sono legati, anche troppo, e questo rende difficile l’accesso a chi è fuori dalle caste. Perciò vedo positivamente l’indipendenza dei compositori (ammesso che esista).
La problematica esiste per gli artisti ma… anche per i musicisti! Il discorso delle caste vale per molti ambiti lavorativi e in molte professioni ma non mi interessa parlarne. Concordo col Maestro Sciarrino, ma l’isolamento è sì un limite, da una parte, ma è spesso necessario per poter lavorare, creare, poter avere il giusto tempo per capire come esprimere un qualcosa che viene dalla nostra sensibilità. Questo per far sì che ciò che ‘riproduciamo’ non sia una copia, un sentito dire, un puzzle, ma – seppure con i tempi di oggi, cioè talvolta stretti – una riproduzione di ciò che proprio noi abbiamo compreso di quell’opera. Il ‘noi’ inteso (riprendo parte della seconda domanda) come storia, conoscenza, codici appresi ma pur sempre ricreato da noi: il nostro suono, il nostro legato, il nostro pedale, ecc.
Mi chiedo come possa, una pianista di successo, coltivare il bello musicale, che è spesso paradigma del bello tout court, e poi, lasciato il pianoforte, accettare di trovarsi in mezzo al traffico infernale di una metropoli o camminare zigzagando tra le buche che il Comune non si decide a ricoprire. Sembra una questione faceta, ma non lo è: Schopenhauer scrisse che la musica, arte assoluta e pura, ha il potere di liberarci dal mondo.
Mi sono trasferita in Umbria, notoriamente conosciuta come terra d’arte, natura e di santi… può bastare come risposta? Personalmente sono legata a Napoli e Milano, le due città di cui mi definisco figlia. Conosco i loro limiti ma anche la loro energia. La vita deve essere un equilibrio di vitalità e di pace: per questo sto lavorando.
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
Le prime date italiane sono l’11 febbraio al Teatro Comunale ‘Claudio Abbado’ di Ferrara – dove suonerò musiche di Ligeti, Bach, Scriabin e Chopin –, e il 24 e 26 aprile al Teatro Verdi di Trieste con la direzione di Julius Kalmar e musiche di Mozart e Beethoven. Poi naturalmente, tra un concerto e l’altro, voglio continuare a insegnare, collaborare con amici musicisti, studiare nuovi repertori.